
Quello del Design Thinking è un concetto relativamente nuovo per l'Italia ma già da anni oggetto di discussione ed applicazione negli USA e non solo. Nella sua formulazioni iniziale e più sintetica, il design thinking sta ad indicare un metodo, un processo di progettazione (design) collaborativo, applicabile alla soluzione di problemi complessi.
Mutuato da settori nei quali è indispensabile che la progettazione sia frutto di apporti da parte di soggetti con competenze anche molto eterogenee (come lo è appunto il settore del design inteso come disegno industriale o progettazione architettonica, per fare un esempio) il design thinking sta trovando interpretazioni estensive non sempre condivisibili e talvolta un po' raccogliticce.
Uno degli equivoci più diffusi è che il design thinking garantisca per esso stesso dei risultati validi, quasi che il metodo (applicato peraltro in modi molto vari, come dicevamo prima...) rappresenti una sorta di panacea per ogni problema progettuale.
Poiché in Maple applichiamo questi metodi e processi da almeno un decennio prima che il design thinking venisse definito (in un certo senso siamo dei design thinker ante litteram) siamo arrivati ad alcune riflessioni che sentiamo di voler condividere (e se volete discutere, naturalmente):
- il design thinking è tanto "buono" quanto "buoni" sono coloro che lo praticano;
- il design thinking è tanto efficace quanto efficaci sono le tecniche per svolgere il processo;
- il design thinking funziona se a guidarlo sono dei designer;
- il design thinking difficilmente può essere internalizzato.
Per "buono" intendiamo ovviamente "efficace", ovvero che conduce a risultati certi, applicabili e misurabili.
Per "tecniche" del processo di design thinking intendiamo che queste devono essere documentate e codificate e non improvvisate (salvo le opportune deroghe…). Una sessione di design thinking va progettata e preparata con cura, necessita di "supporti" adeguati (non basta quasi mai un foglio di cartoncino ed un pacco di post-it colorati) e richiede che le fasi di lavoro vengano documentate con precisione.
Per "guidato da designer" intendiamo che il processo di design thinking, con le sue sessioni di lavoro, non può essere guidato e condotto da semplici "facilitatori" che non abbiano competenze specifiche sulla materia oggetto di progettazione. In alcuni rari casi può essere sufficiente, ma nella maggior parte dei casi una generica facilitazione (anche se al processo partecipano persone con competenze specifiche) porta nella migliore delle ipotesi a tempi molto dilatati, iterazioni ridondanti e risultati incerti.
Secondo alcuni guru statunitensi, il design thinking sarebbe già superato (addirittura morto, sostiene qualcuno) e non consentirebbe i risultati promessi. Noi pensiamo che in parte ci sia del vero: quando il design thinking viene internalizzato da aziende ed organizzazioni, rinunciando ad avvalersi in outsourcing di risorse esterne, il processo perde di efficacia, diventa quasi una commodity sino a trasformarsi in alcuni casi in una routine per giustificare la mancanza di responsabilità individuale nelle scelte progettuali. A queste condizioni - ovviamente - concorderemmo sul necrologio del design thinking, ma sarebbe come sostenere che una ruota non rotola per colpa della forma, quando è solo bucata o montata storta.
Dunque il tanto atteso nuovo corso di Nokia è cominciato. Nella gamma del produttore finlandese entrano i primi due smartphone con Windows Phone 7. Due prodotti che sembrano ben fatti, collocati in una fascia di prezzo medio bassa (per il Lumia 710) e media (per il Lumia 800). Saranno disponibili in Italia nella terza decade di novembre e certamente li prenderemo, intanto per provarli e vedere se diventeranno o meno gli smartphone aziendali.
La cosa più interessante che osserviamo - specifiche e funzionalità a parte - è che Nokia ha già rilasciato e cominciato a far girare uno spot (per ora sul web) molto accattivante. E' di fatto il primo spot di uno smartphone Windows Phone 7 che faccia venire voglia di comprarne uno.
“Most people make the mistake of thinking design is what it looks like. That’s not what we think design is. It’s not just what it looks like and feels like. Design is how it works.”
La frase è famosa ed è di Steve Jobs. Sebbene annunciata da tempo, la sua scomparsa lascia comunque un vuoto. Tutti ne parlano e ne scrivono da due giorni, evocando miti e leggende di ogni tipo, rivolgendosi a Jobs come ad un amico personale. Io non l'ho conosciuto personalmente, ho usato tante macchine Apple così come ho usato ed uso di tutto senza particolare emozione per lo strumento: mi interessa che funzioni bene per fare bene le cose che voglio farci, di lavoro e personali, senza idolatrie.
Con lo stesso atteggiamento ho scelto che il mio palmare non sia un iPhone, le workstation che ho sotto la scrivania non siano Apple e non lo siano il mio notebook ed i miei server. Ho però un iPad e lo terrò fintanto che sarà il tablet migliore in commercio. Se e quando ne arriverà un altro migliore (potrebbe essere un altro iPad o qualcosa di altro produttore), cambierò in meglio, senza per questo sentirmi un traditore.
Se veramente Jobs è stato l'innovatore che si crede, il mago del design (faccio per dire, nel design c'è tutto fuorchè magia), sarà ora il caso di superare la fascinazione dei prodotti Apple e "sublimare" il messaggio, il pensiero. Io sono stato sinceramente più impressionato e ispirato dalle campagne di comunicazione di Apple che non dai suoi prodotti, più dai suoi discorsi illuminati e stimolanti che non dal catalogo dei Mac.
Due aspetti mi hanno però sempre lasciato perplesso della filosofia Apple: l'altissimo "costo di ingresso" e la forte chiusura del sistema. Due aspetti che - mi dispiace dirlo - con il buon design hanno ben poco a che vedere.